
The Doors (1991) - Un’odissea psichedelica che dimentica la musica
VOTO 3/5
SINOSSI
Il film racconta la storia di uno dei gruppi musicali che maggiormente influenzarono le future generazioni dalla fine degli Anni Sessanta in poi, e del suo cantante, Jim Morrison, uno dei miti del rock, morto a soli 27 anni per overdose.
Quando Oliver Stone decide di raccontare la storia dei Doors, non sceglie la via classica del biopic musicale, ma abbraccia un’estetica visionaria e travolgente, dando vita a un’opera che somiglia più a un trip acido che a un film sulla musica. The Doors non è il ritratto di una band, né tanto meno un’indagine sulla figura complessa di Jim Morrison: è una discesa caotica, lisergica e sensualmente disturbante nei suoi eccessi, nelle sue ossessioni e nella sua autodistruzione.
Stone dipinge Morrison come un’icona tragica e perduta, ma lo fa calcando la mano sugli aspetti più estremi e carnali del personaggio. Il film è una lunga sequenza di feste, sesso occasionale, droga e sguardi persi nel vuoto. Jim è un uomo strafatto quasi in ogni scena, sempre in bilico tra delirio e poesia, ma quasi mai viene mostrato come artista lucido, come poeta o musicista consapevole. Ne emerge il ritratto di un “porcone mistico”, che più che comporre musica, sembra viverla come sfondo a un’orgia permanente.
La musica, quella vera, è sorprendentemente marginale. I momenti di esibizione ci sono, ma sono brevi, frammentari, spesso interrotti da visioni o da gesti di pura provocazione. Le dinamiche della band sono appena abbozzate, e gli altri membri – Ray Manzarek, Robby Krieger e John Densmore – appaiono come comparse senza spessore. Il processo creativo, le tensioni, l’evoluzione musicale… tutto sacrificato sull’altare dell’estetica decadente.
C’è da dire, però, che visivamente il film è potente. Stone ricostruisce con efficacia l’atmosfera degli anni Sessanta: le luci, i colori, le immagini psichedeliche che sembrano esplodere sullo schermo restituiscono perfettamente lo sballo dell’epoca. Le sequenze sotto l’effetto degli acidi, in particolare, sono tra le più originali mai viste al cinema, capaci di evocare uno stato mentale alterato in modo quasi tangibile.
E poi c’è Val Kilmer. La sua interpretazione è, senza mezzi termini, straordinaria. Si cala nel personaggio con una dedizione totale, ne imita la voce, i movimenti, lo sguardo febbrile, la postura sul palco. Kilmer è Morrison, e il suo lavoro è l’unico elemento che riesce davvero a dare consistenza al mito, andando oltre la caricatura.
All’epoca dell’uscita, nel 1991, la critica fu spaccata. Alcuni lodarono la forza visiva del film e la performance di Kilmer, altri accusarono Stone di mitizzare l’autodistruzione e di aver costruito una narrazione troppo sbilanciata, che riduce Morrison a un’icona rock stereotipata, dimenticandone la profondità intellettuale e la passione per la poesia. Molti fan dei Doors rimasero delusi dalla rappresentazione della band, ritenuta inadeguata e superficiale.
In conclusione, The Doors è un film che affascina lo sguardo, ma lascia irrisolti molti dei nodi centrali. È un’esperienza cinematografica intensa, sensoriale, ma anche frustrante. Chi cerca la musica, l’anima del gruppo, o il vero volto di Jim Morrison, farà fatica a trovarli. Chi invece vuole immergersi in un delirio visivo ben costruito, troverà pane per i suoi occhi.
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