FABIO IZZO: L'INTERVISTA
"QUANDO IL MONDO HA SMESSO DI LEGGERE, IO HO RICOMINCIATO A SCRIVERE"

BIOGRAFIA:
Fabio Izzo è uno scrittore italiano nato nel 1977 ad Acqui Terme, in Piemonte. La sua formazione e la sua vita sono state segnate da un profondo interesse per la cultura mitteleuropea, in partcolare quella polacca e finlandese: ha vissuto infatti per lunghi periodi in Polonia e in Finlandia, esperienze che hanno lasciato un’impronta chiara nella sua scrittura. Oltre a scrivere romanzi, si è dedicato anche alla traduzione di poesia dal polacco, contribuendo così a costruire un ponte tra mondi linguistici e culturali diversi. Il suo esordio letterario risale al 2005 con Eco a perdere, un romanzo breve pubblicato da Il Foglio Letterario, che già rivelava il tono malinconico e dissacrante che avrebbe caratterizzato molte delle sue opere successive. Fin dall’inizio, Izzo si è dimostrato uno scrittore capace di mescolare autobiografia, riflessione esistenziale e sguardo critico sulla società, con uno stile personale e non convenzionale. Negli anni successivi ha pubblicato numerosi romanzi, tra cui Il Nucleo, Balla Juary e Doppio umano quest’ultimo incentrato sulla figura di un poeta africano emigrato in Polonia, e sul suo difficile dialogo con l’identità, l’esilio e le responsabilità morali. Il confronto tra culture e il senso di stranierità sono temi ricorrenti nei suoi testi , affronta sempre con profondità emotiva e lucidità intelletuale. Nel corso della sua carriera, Fabio Izzo ha ricevuto diversi riconoscimenti: il Premio Grinzane Cavour Dialoghi con Pavese (2009), il Premio Internazionale Città di Cava de’ Tirreni (2015), ed è stato finalista al premio Scrivere per amore nel 2017.
La sua scrittura, spesso definita “ibrida”, si muove tra romanzo, diario, poesia, graphic novel e reportage, con un tono inconfondibile che unisce ironia, malinconia e tensione etica. Nel 2025 il suo esordio come regista di un breve documentario amatoriale girato in Ucraina, dove si intrecciano appunti e riflessioni personali su una nazione lacerata dal conflitto.
L'INTERVISTA
1. Fabio, sei nato in Piemonte ma la tua scrittura è profondamente segnata da esperienze in Polonia e Finlandia. Quali ricordi di quei periodi senti più vivi dentro di te oggi?
Quando il mondo era più grande, parliamo della realtà prima o priva di Internet, partii per l’Erasmus in Finlandia. Tampere era una città che non rientrava nemmeno nella mappa geografica appesa nell’ufficio addetto, per intenderci. Finita l’esperienza, prima di rientrare in Italia, ho fatto una tappa in Polonia, durata cinque anni e che, a intermittenza, continua ancora oggi. La maggior parte dei miei romanzi è di fatto ambientata in Polonia.
2. Nei tuoi libri parli spesso di identità e stranierità. È un tema che nasce da un tuo vissuto personale?
Assolutamente sì. Io stesso mi sono sentito spesso straniero, anche in casa mia. Sulla mia pelle ho vissuto il razzismo e il bullismo quando non erano ancora temi sulla bocca di tutti. La mia famiglia è di origini campane. In prima elementare mio nonno morì d’infarto, così mancai qualche giorno per andare al suo funerale, giù ad Avellino. Al mio rientro ebbi una grande accoglienza, qualche compagno di classe, più di uno, commentò la morte di mio nonno con un semplice “Un terrone di meno”. Per me, l’esperienza dell’esilio non fu e non è solo geografica, ma resta anche interiore. Essere foresti, per dirla alla genovese, significa guardare le cose da un’angolatura diversa, e questo crea un’attenzione, a volte dolorosa, ma anche fertile e sensibile, verso tutto quel che ci circonda.
3. Hai tradotto poesia dal polacco: che cosa ti affascina di questa lingua e cultura al punto da voler fare da “ponte” per il pubblico italiano?
A me piacciono le sfide che, regolarmente, finisco con il perdere, ma questo non vuol dire che non debbano essere affrontate. La produzione letteraria polacca è un bene dell’umanità, qualcosa che deve essere diffuso il più possibile. Mi sono impegnato molto a diffonderla in passato, ora un po’ meno, ho lasciato il testimone ad altri...I successi della Polonia di oggi arrivano anche grazie sulla sua letteratura, mentre l’Italia di oggi, legge poco, legge male, non legge ma, scrolla.
4. La tua scrittura è stata definita “ibrida”, sospesa tra diario, romanzo, reportage… È una scelta consapevole o un istinto creativo?
In Italia, per tanto tempo, si è addomesticato il lettore, lo si è fidelizzato, rassicurato, alimentando un circolo editoriale placido, stagnante. Altre volte si è guardato più al messaggio che al vettore. Io non ho mai seguito i grandi numeri, scrivo di Polonia...quindi nel mio piccolo ho avuto più libertà di sperimentare, adattando la forma all’idea partorita. Qualche volta è andata bene, altre no, ma se si guarda alla cultura come un tornaconto personale, si partecipa alla sua eutanasia, io sono sempre stato convinto, magari sbagliando, che si tratti più di una missione che di un privilegio.
5. Molti tuoi protagonisti vivono una tensione tra il bisogno di appartenere e il desiderio di restare liberi. È anche la tua sfida personale?
Io ho un radicato senso di appartenenza e so che la libertà non è un regalo, ma va guadagnata e se ogni giorno ne perdiamo un pezzetto dietro l’altro è perché l’abbiamo data per scontata e abbiamo mandato altri a interessarsene al posto nostro
6. Hai ricevuto riconoscimenti importanti: Grinzane Cavour, finalista a Scrivere per amore… qual è stato il momento in cui ti sei sentito davvero “scrittore”?
Nemmeno ora, durante la nostra conversazione mi sento uno scrittore, c’è ancora molto da scrivere e tanto da leggere
7. Sei un autore che spesso inserisce ironia dentro storie malinconiche. Pensi che ridere sia un modo per sopravvivere al dolore?
Dicono che la mia sia un’ironia tagliente, non sempre immediata, ma sì, a me piace ridere, mi piace così tanto che dicono che non lo faccio mai
8. Da scrittore sei passato alla regia: com’è stato guardare il mondo attraverso l’obiettivo di una videocamera invece che sulla pagina bianca?
Durante la mia carriera clandestina ho sperimentato diversi linguaggi, ho scritto per il teatro, per il cinema, romanzi, graphic novel, poesie, canzoni e idee per video musicali. Mi mancava il cinema, per la verità, credo che mi manchi ancora, nel vero senso della parola cinema. Sono un appassionato amatoriale cinefilo, ho cofanetti vari di Kieslowski, Polanski, Wajda, Moodyson, Kaurismaki e Ken Loach, giusto per citarne alcuni, e non mi considero un “regista”. Volevo fare la mia parte, questo sì. Per il resto, sulla pagina bianca, sei solo con te stesso, dietro l’obiettivo hai invece il mondo davanti ma quello che è importante, in entrambi i casi, è che sono le proprie scelte a fare la differenza.
9. Come nasce l’idea di partire per l’Ucraina con tre vecchi cellulari e raccontare una storia così personale?
Allo scoppio della guerra ero in Lituania per lavorare su un altro progetto letterario, mai portato a termine. Doveva essere una graphic novel, lavoravo alla sceneggiatura, ma 3 disegnatori si sono defilati uno dopo l’altro, scegliendo di lavorare su prodotti decisamente più commerciali e
immediati. Comunque, da Vilnius tornai d di corsa in Italia. Dentro di me c’era però qualcosa che non andava. Non mi sento Hemingway, non ne ho le qualità letterarie di sicuro, ma forse ho lo stesso spirito indomito, così non mi fermai e andai in Polonia, dove si stava riversando un oceano di
rifugiati. Alla fine mi fermai tre settimane, cercando di aiutare, facendo quel che potevo. La mia attività di scrittore mi permise di stringere diversi contatti, scrissi anche dei “reportage” per il settimanale locale della mia città. Dopo questa esperienza rimasi in contatto con diverse persone,
anche se molte hanno lasciato la Polonia, c’è chi ha preferito andare in Canada, qualcuno è riuscito a iscriversi all’Università in Svizzera e chi è andato a vivere in Turchia. Questa è l’attuale diaspora ucraina, fenomeno sottovalutato se non addirittura deriso da qualcuno in occidente. Scrissi
addirittura un libro “Ucraina, appunto una guerra”. Tre anni dopo il libro aveva terminato la sua corsa, ma la guerra e la mia inquietudine però no. Io non so mai quando fermarmi, così da Cracovia,dove vedevo questo continuo via vai di bus per l’Ucraina, ne ho preso uno e sono andato a vedere.
Con me avevo solo un bagaglio da cabina d’aereo, tre cellulari rotti (uno con lo schermo scheggiato,uno con il microfono non funzionante e uno con una batteria esausta, a dirla tutta) e due libri. Alla dogana siamo rimasti fermi per ore e visto che, distrattamente, non avevo ancora attivato l’eSIM il roaming mi consumò tutto il credito. Arrivo a Leopoli, senza capire di essere a Leopoli. Sul tram prendo una multa perché avevo fatto 1 solo biglietto e non avevo fatto il biglietto per il mio zainettoche avevo riposto sul sedile a fianco in un tram deserto. In pratica c’eravamo solo io e questa addetta al controllo che parlava solo ucraino e che voleva multarmi a tutti i costi in un suo diritto (sicuramente estremizzato), così ho cominciato a riflettere sulle situazioni, su come si vive davvero in guerra, quando la guerra sei, purtroppo, costretto a subirla. Ci si dimentica spesso che “In amore e guerra, tutto è valido” protetti come siamo dai nostri privilegi, e così ho dovuto reinventarmi anche nelle piccole cose. Nell’androne del palazzo c’era appeso un manifesto che spiegava come comportarsi in caso di attacco chimico, esplosivo o, addirittura nucleare. Nel mio condominio in Italia c’è un vecchio cartello di divieto di fumare... le differenze saltavano subito agli occhi, però fuori la gente cantava, c’erano i cori del Natale e nevicava, in uno scenario davvero surreale
10. Nel documentario, il suono dei mandolini diventa un ponte tra L’viv e Napoli. Quando hai sentito per la prima volta quella musica, che cosa hai provato?
Strano a ricordarlo, davvero. Mi sono sentito vivo, sembra strano ma è così. C’era tutta questa serie di eventi, gettati a caso, lungo un percorso caotico che andavano a culminare lì. L’arte che resiste alla guerra, potrei dire banalmente. Eppure, forze primordiali, chiamatele come meglio credete, avevano tramato per creare quel momento. Oggi giorno usiamo il termine retorico in senso negativo, quasi dispregiativo, se qualcosa è retorico non ci piace, eppure lì, la retorica, la sua arte persuasiva aveva ritrovato tutta la sua forza.
11. La frase “non può esistere un bel film sulla guerra perché la guerra è brutta” è forte. Come hai fatto a raccontare la bellezza senza tradire l’orrore del conflitto?
A volte ci perdiamo in noi stessi, usiamo linguaggi complicati per non dire la verità, dietro le parole nascondiamo le nostre intenzioni. Uno degli aspetti più subdoli della guerra è la propaganda. Ho cercato quindi di smontare tutte queste infrastrutture di comunicazione messe su per impedirci di essere oggettivi. Non volevo estetizzare la guerra, ma mostrare che, l’essere umano nonostante tutto, sa ancora essere umano.
12. Napoli e L’viv sono unite dalle sirene: Partenope da una parte, gli allarmi aerei dall’altra. Che riflessione volevi provocare nello spettatore con questo parallelismo?
Volevo ricordare che le città non sono mai solo luoghi geografici, ma creature mitiche. Esiste poi un altro legame tra Napoli e l’Ucraina, non molti sanno che il testo di O Sole Mio, la celebre canzone, è stato in parte scritto a Odessa, dove la presenza napoletana all’epoca era molto forte e importante. Napoli è una città nata da un amore tragico, Partenope era una sirena che ha spezzato il suo canto proprio per amore, mentre a Leopoli, oggi, le sirene sono un canto minaccioso, di morte. Napoli stavivendo una sua rinascita, anche turistica, pensa alle parole di Ron “Poi mi siedo in faccia al golfo di Napoli e ringrazio Dio” in “Mannaggia alla musica”, e sì, lì ci si sente davvero in pace...ed è questo che volevo augurare alla martoriata Ucraina, di tornare a godere della propria bellezza in pace e di tornare a essere terra accogliente.
13. Quanto c’è di autobiografico in questo viaggio? È stato anche un modo per ritrovare una parte di te?
Sono partito senza un’idea o per meglio dire, senza l’idea di girare un corto, ero impreparato e sprovvisto dei mezzi. Poi lì sul luogo ho pensato a una vecchia poesia di Czesław Miłosz, Campo dei Fiori e ho provato forse le stesse cose. A Roma, nella poesia, la vita scorreva tranquilla, mentre
Varsavia bruciava, devastata dalla guerra. Quando poi ho sentito le note di Malafemmena interrompere il ritmo degli attacchi, in piazza a Leopoli, tra i monumenti e vetrine protetti da sacchi da sabbia, lì ho avuto l’Epifania e ho girato la prima scena in un caffè storico, ricordando mia nonna.
14. Le immagini che hai girato sono molto intime, quasi diaristiche. Hai mai avuto paura durante le riprese?
In una battuta dico che l’Ucraina è più sicura di Milano e forse è vero. Ormai viviamo di paure, sopraffatti dalla paura, i media e i social ci circondano di messaggi destinati a spaventarci. In Ucraina la paura, arriva dal cielo, quando suona l’allarme non sai mai cosa può succedere...e allora
aspetti. Non puoi che scappare e aspettare.
15. Che reazione ti aspetti dal pubblico? Più empatia per l’Ucraina, più riscoperta delle radici napoletane, o entrambe le cose?
L’intento era quello di mostrare al pubblico la quotidianità di un paese in guerra, fatta di tensioni e di paure, ma anche di speranza. Purtroppo da noi, l’empatia sembra essere qualcosa di selettivo. Si sceglie una causa, giusta per carità, ma la si trasforma in qualcosa di ossessivo e di morboso, perdendo il più delle volte il buon senso, ma queste sono cose da tifosi. Come si diceva in una vecchia pubblicità: io tifo Napoli, tiè! Non tifo per la guerra e cerco di portare un messaggio di solidarietà.
16. Dopo questa esperienza, pensi di continuare a fare documentari o tornerai soprattutto alla scrittura?
Recentemente ho pubblicato un post sui miei social che recita: “Quando il mondo ha smesso di leggere, ho ricominciato a scrivere” La scrittura resta la mia casa, ma credo che, tempo e risorse permettendo, possa convivere con l’esperienza cinematografica. In ogni caso i miei lavori sono
molto intimi e possono continuare con lo stesso stile
17. Se hai un progetto in cantiere, puoi anticiparci qualcosa?
Ho appena presentato a Barcellona Promet...ti amo, un corto sul terzo scudetto del Napoli girato in Georgia, per via del legame con Kvaratskhelia. Vorrei tornare in Ucraina e girare qualcosa a Drohobicz, su Bruno Schulz. Inoltre mi vogliono coinvolgere in un progetto in terra pugliese. Per quanto riguarda la scrittura invece, mi sto dedicando a un romanzo para fantascientifico ambientato in Italia. All’orizzonte si avvicina invece una serie di podcast, 6 episodi, registrati insieme a Giovanni Facelli de Lo Straniero. Questa settimana abbiamo registrato il terzo episodio e a ottobre
dovremmo pubblicare il primo
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